Abbiamo ancora bisogno della chitarra di Guthrie

Abbiamo ancora bisogno della chitarra di Guthrie

Lo scorso 14 luglio ricorreva l’anniversario della nascita di uno dei massimi rappresentanti del folk e inventore della canzone di protesta Woody Guthrie. In lui si può rintracciare una originale e potente sintesi di blues e country, di dolcezza da ninnananna e duro racconto alla Steinback. Tutti ricordano il motto inciso sulla sua chitarra “This Machine Kills Fascists", che ben riassume il senso del suo impegno come artista consapevole, capace di veicolare attraverso la propria arte un messaggio che trascende il semplice intrattenimento per diventare vibrante e incisiva ribellione contro l’ingiustizia e denuncia del lato oscuro del cosiddetto sogno americano.

 

La sua influenza abbraccia settanta anni di musica americana e non solo, rintracciandosi all’interno dell’opera di artisti di prima grandezza da Bob Dylan a Bruce Springsteen fino ai protagonisti della scena indipendente contemporanea come Billy Bragg e i Wilco.

 

Assurto a vera e proprio icona culturale Oltreoceano al punto che alcuni suoi lavori sono raccolti nella Biblioteca del Congresso di Washington accanto a documenti di importanza capitale per la storia americana.
 

La sua è una vita segnata da infelicità e difficoltà fin dall’infanzia trascorsa tra i rovesci finanziari del padre, un incendio che si porta via la sua casa, l’esplosione di una stufa che uccide sua sorella e la malattia che porterà alla morte la madre. Anche il padre, con cui coltiverà sempre un rapporto conflittuale, morirà in seguito in un incendio le cui circostanze non verranno mai chiarite.

 

Uniche compagne costanti e fedeli della sua vita rimarranno armonica e chitarra con cui, sacco in spalla, attraversa l’America della Grande Depressione creando il mito del folk-singer "hobo". Negli anni Trenta il suo vagabondare lo porta nel fertile ambiente del Greenwich Village. Proprio in quegli anni, nascono capolavori come "This land is your land" e "Pretty Boy Floyd" che ridefiniscono l’immaginario della società americana affrontandone drammi e torti sopiti dalla coscienza benpensante. Epocale il suo duetto con il bluesman Lead Belly. Per la prima volta un bianco intonava canzoni di protesta insieme a un musicista nero. Un inedito assoluto per la società dell’epoca.

 

L’avventurosa e tragica vita di Guthrie conoscerà anche l’esperienza del manicomio dove il cantastorie di Okemah morirà, a soli 45 anni, nel ’67.

 

Più di cento anni sono passati dalla sua nascita, la società, non solo americana, ha conosciuto profondi mutamenti, eppure, in questi giorni che assomigliano sempre più all'America della Grande Depressione, le sue canzoni e le sue parole parlano ancora con tenacia instancabile e per certi versi profetica la lingua del presente.

 

Una attualità che trova icastica rappresentazione in un aneddoto legato ad una sua canzone. Negli anni ’50 Guthrie scrisse "I Ain’t Got No Home" un’invettiva in forma di canzone nei confronti del suo padrone di casa che affittava solo ai bianchi. Il padrone di casa era Fred Trump, il padre dell’attuale Presidente degli Stati Uniti. Cambiano le generazioni ma, evidentemente, certi pregiudizi e certe idee, come un virus maligno, continuano a infettare le nostre menti: abbiamo ancora bisogno di Woody Guthrie e delle sue canzoni come potente e liberatorio antidoto.

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