Intervista a Flavio Oreglio su "Anima Popolare"

Intervista a Flavio Oreglio su "Anima Popolare"

Musicista, attore, scrittore, Flavio Oreglio nella sua produzione artistica si è fatto conoscere dal grande pubblico per la sua vena che unisce in maniera originale poesia e satira, umorismo e impegno civile. Oggi ritorna alle sue origini di cantautore con un lavoro discografico dal titolo “Anima popolare”. La redazione di Notetralerighe.it lo ha intervistato.

Intervista a Flavio Oreglio per Note tra le Righe

Dopo il “trentennale lungo” (parafrasando “Il Secolo Breve” di Hobsbawm), nel quale hai raccontato e riproposto tutto il tuo percorso artistico dal 1985 al 2015, hai deciso di ripartire dalla musica. Ci riassumi le tappe fondamentali di questo percorso che ti ha portato a questa nuova avventura creativa?

Una festa lunga durata quattro anni. Un momento di stasi apparente, in realtà, ho lavorato tantissimo portando a termine un percorso editoriale culminato nella pubblicazione di due volumi autobiografici dal titolo “Una vita contromano. Autobiografia non autorizzata”, che riprendono in forma antologica un po’ tutto quello che ho fatto in questi tren’anni di carriera. Una carriera che ha inizio nel 1985 nei pub sui navigli a Milano proponendo musiche e parole che avevo elaborato negli anni precedenti. Prima di affrontare l’università, infatti, mi sono dedicato allo studio della musica e del pianoforte e dato vita, con amici, a diversi gruppi musicali passati attraverso varie esperienze come la musica prog, il jazz, il rock, la fusion. Ho anche iniziato a scrivere canzoni che però non proponevo in pubblico. Nei primi anni Ottanta ho cominciato a sperimentare un percorso da solista che mi ha permesso per quattro anni di maturare un’esperienza, che poi porto nei pub a partire dall’ottantacinque, anno che segna il mio esordio ufficiale, come detto in precedenza. Comincio, in questo modo, a proporre le mie canzoni, i miei spettacoli sui palchi che me lo permettono. In seguito, debutto anche nel cabaret, dove ho trovato un luogo ideale in cui esprimermi, oltre che una grande scuola che mi ha aiutato a migliorare. Il primo cabaret in cui sono approdato è stato la Corte dei Miracoli a Milano, che ha rappresentato la porta d’ingresso in un ambiente artistico che è quello che mi ha visto emergere e fatto conoscere al grande pubblico anche attraverso la televisione.

 

Non è un caso che per la presentazione di “Anima Popolare” tu abbia scelto lo “Zelig” di Milano, un luogo carico di significati per la tua carriera, una sorta di chiusura del cerchio.

Anche se ha dato notorietà solo ad un frammento del mio lavoro artistico, il personaggio del poeta catartico, di fatto, ha messo in ombra altri ambiti in cui mi ero, da sempre, espresso come quello cantautoriale per l’appunto, l’esperienza di Zelig per me è stata fondamentale, mi ha aperto tante strade e aiutato a fare meglio il mio lavoro. Tra l’altro, io Zelig l’ho frequentato dai suoi esordi, ben dieci anni prima del suo approdo in televisione. All’interno di un rapporto dialettico, ma sempre franco, che mi ha visto, in alcuni casi, in disaccordo con quell’ambiente, la stima e la riconoscenza è rimasta sempre inalterata e anche la presentazione di questo ultimo lavoro mi è sembrato giusto che avvenisse lì.

 

Potresti parlarci del tuo lavoro di ricerca e memoria sfociata nel progetto dell’Archivio Storico del Cabaret Italiano? Una importante iniziativa per rivalutare e storicizzare questo importante e, in realtà, poco conosciuto genere di spettacolo.

Si, è un’iniziativa che nasce per storicizzare e, soprattutto, fare chiarezza. Il punto focale è che oggi siamo abituati a dare alla parola cabaret un significato affatto diverso da quello che, in realtà, il cabaret ha rappresentato alle sue origini. L’insieme delle cose che noi vediamo in televisione e che ci fanno ridere – o dovrebbero farci ridere, perché in realtà bisogna chiedersi anche questo – è un coacervo di varietà, avanspettacolo, animazione da villaggio, burlesque, vaudeville, tutta roba che ha la sua dignità ma non c’entra nulla con il cabaret. Il fatto di confondere costantemente il cabaret con il comico è un errore generato proprio dalla televisione e in questo aveva ragione Jannacci quando diceva che “La televisiun la g'ha na forsa de leun”. Allo stesso modo, è sbagliato pensare che tutto quello che fa ridere sia comico. Un esempio su tutti, Giorgio Gaber faceva ridere tantissimo, ma nessuno si sognerebbe di definire Gaber un comico. Far ridere non è prerogativa dei comici. Fondamentale è l’intenzione, la risata può essere un fine o un mezzo per raccontare altro. Io sono vent’anni che mi occupo di questi temi e ora si può promuovere un diverso approccio anche grazie all’Amministrazione Comunale di Peschiera Borromeo che mi ha dato degli spazi per poter allestire l’archivio. In questo modo è stato possibile mettere in ordine tutto patrimonio documentario in nostro possesso e allestire una mostra che può essere anche itinerante. Un archivio che risponde anche alla domanda che io stesso agli esordi mi ponevo ovvero che cos’è il cabaret. Il cabaret ha una storia e una genesi precisa che in Italia non è mai stata raccontata.

 

Anche alla luce del tuo lavoro di studio della materia, hai avuto modo di approfondire il rapporto storicamente fecondo e fondativo tra cantautorato e cabaret. In che modo queste due espressioni artistiche si sono incontrate?

È un rapporto indissolubile. Storicamente la moderna canzone d’autore nasce proprio nei cabaret. Non a caso, quello che è considerato il capostipite della canzone d’autore - di tutta quella generazione di autori francesi del dopoguerra come Brassens, Brel, Vian - Aristide Bruant si esibiva alla fine dell’Ottocento allo Chat noir, il primo cabaret. Lo Chat noir fu un celebre locale di cabaret fondato da un pittore, Rodolphe Salis, e proprio lì Aristide Bruant, che aveva già sperimentato le sue canzoni canaglia, raccontava il lato oscuro della Belle Époque. Cantava dei diseredati, degli ultimi, dei delinquenti, delle puttane. Le tematiche tipiche anche della canzone di De André e di Jannacci e Fo. Lo stesso Salis introdusse nel suo cabaret un gruppo di poeti performer che stavano sperimentando nuove forme di poesia con inserimenti satirici e umoristici, anche loro furono grandi pionieri nel saggiare il rapporto tra poesia e musica.

 

In “Anima popolare” si avverte forte l’influenza della grande tradizione cantautorale italiana e della scuola milanese in particolare. Quali sono, nello specifico, gli artisti che ti hanno ispirato?

Da sempre la mia scuola di riferimento è la scuola dei cantautori e, all’interno di questa, la scuola milanese, quella nata nei cabaret di Milano negli anni sessanta con Fo, Jannacci, Gaber, Svampa, I Gufi, Valdi, Cochi e Renato. Anche loro avevano nel cabaret il luogo della sperimentazione e hanno scritto dei capolavori di arte popolare. A loro, poi, si sono affiancati De Andrè, Guccini, De Gregori in parte negli stessi anni, in parte in quelli immediatamente successivi. Questo il mio mondo di riferimento, con una precisazione: il cantautore non è semplicemente chi canta le canzoni che scrive, il cantautore, come voleva Gaber, è colui che, attraverso le sue canzoni, dà una propria visione critica del mondo. Io personalmente, ho cercato di assimilare lo spirito di questo approccio alla canzone, poi sono figlio anche di altre esperienze, come ho detto all’inizio, ho fatto musica prog, jazz, fusion. Ognuno è figlio del suo tempo, quello che rimane inalterato è quello che io chiamo il “continuun culturale”, una continuità tra ha chi fatto determinate cose nel passato e chi le fa oggi. Stili e dinamiche sono diverse, ma comune è lo spirito e l’intento. “Anima popolare” è un po’ il sunto di oggi. Io mi sono permesso di prendere le radici popolari della musica delle “quattro province”, quella zona della Lombardia che si incunea tra l’Emilia Romagna, la Liguria e il Piemonte, che coltiva questa musica che ha una tradizione centenaria e l’ho contaminata con la musica moderna. Così nascono le canzoni di “Anima popolare” che hanno il suono della musica della “quattro province” ma l’intenzione è moderna.

 

In questa nuova esperienza sei affiancato dagli Staffora Bluzer. Come è nata questa collaborazione?

Tutto è iniziato nell’Oltrepò Pavese, sull’appenino dell’Alta Valle Staffora, al Passo del Brallo, presso il Circolo dei Poeti Catartici di Pregola che ho costituito nel 2015 per festeggiare i miei trent’anni di carriera. Ogni anno il 18 agosto il circolo celebra la festa della sua fondazione invitando amici a suonare nell’ambito del progetto “Open Art Oltrepò” insediato nel Circolo stesso. Nel 2017 si sono presentati alla festa Stefano Faravelli e Matteo Burrone, due ragazzi che coltivano la musica tradizionale di quella zona e mi hanno proposto di suonare qualcosa insieme. La scelta è ricaduta sulle canzoni della tradizione cantautorale milanese. Abbiamo provato e proposto quattro o cinque pezzi ed è stata una folgorazione. Il pubblico si è esaltato e ci ha spinti a intraprendere una collaborazione stabile. Da quella scintilla è nato il progetto “Anima popolare” che si è arricchito di alcuni pezzi che io avevo nel cassetto e che ha ricevuto una ulteriore spinta quando Luca Bonaffini, con la sua LDP Productions, ha deciso di produrre il disco e mi ha proposto un progetto triennale, che sta riscontrando un entusiasmo davvero notevole. Posso dire che, per la prima volta, mi ritrovo inseguire un progetto anziché spingerlo.

 

In un contesto musicale come quello attuale in cui si sfornano prodotti standardizzati dettati dal mercato, parlare di musica popolare può apparire un azzardo, una scelta controcorrente. Qual è per te il senso di questo recupero?

Da sempre sostengo che i problemi della discografia sono altra cosa rispetto ai problemi (se così si può dire) della musica. Il commercio della musica impone degli standard di riferimento su cui la stragrande maggioranza degli artisti si sta appiattendo da decenni. Questa idea della standardizzazione del mercato è un’idea idiota che viene tramandata come fosse la panacea di tutti i mali. Il mercato, si dice, funziona così. Una musica troppo succube dei dettami commerciali, che tra l’altro producono una marea di prodotti che restano invenduti (un paradosso), in realtà, si svuota di emozioni e castra la creatività. L’industria discografica e il marketing devono essere al servizio dell’arte non è l’arte che si deve piegare ai dettami del marketing e dell’industria. La tradizione popolare offre, invece, l’opportunità di proporre sonorità particolari che se opportunamente elaborate aprono a sconfinate possibilità espressive.

 

In “Anima popolare” c’è un’attenzione filologica all’uso degli strumenti con recuperi come quello delle sonorità del piffero, per esempio.

Questo è l’aspetto basilare di questa idea. Questo colore dato da strumenti della tradizione come piffero, fisarmonica e cornamusa è quello tipico di quella zona al cui patrimonio abbiamo guardato, integrandolo, poi, con altri strumenti come basso, batteria, chitarra. Attualmente stiamo studiando una contaminazione ancora più profonda. Ora siamo in studio di registrazione per il secondo album, poiché il progetto di “Anima popolare” prevede l’uscita di tre dischi. Il secondo dovrebbe uscire questo autunno e sarà l’omaggio alla tradizione della scuola milanese intitolato “Milano d’autore” e poi il terzo album sarà tutto originale. Stiamo evolvendo il suono, stiamo già andando oltre la contaminazione di “Anima popolare”.

 

Quali racconti e quali storie percorrono queste canzoni?

Le storie che si raccontano sono storie semplici di vita quotidiana senza cadere, però nella nostalgia. L’idea di base è molto moderna. Ci sono, poi, altri temi che vanno oltre gli aspetti più semplicemente legati alla vita quotidiana. C’è, per esempio, una canzone come Il Bounty dedicata al libero pensiero, alla filosofia presentata come ammutinamento rispetto al mainstream. Ci sono anche canzoni che parlano della balera, un mondo popolare che abbiamo anche preso in giro come nella canzone Bluzer, un acronimo che sta per valzer in blues, un tentativo di contaminare la musica del valzer con quella del blues.

 

Direttamente derivato dalla tradizione anche lo spirito satirico e ludico di questi pezzi aggiornato, naturalmente, ai giorni nostri. Continua con questo lavoro quella ricerca di una “via ludica all’impegno” che è un po’ la cifra del tuo percorso artistico.

Certamente è una dimensione che viene da quella tradizione e che appartiene anche alla mia storia. Io sono cresciuto in una famiglia di estrazione popolare in un paesino della provincia di Milano. Questa mia storia ha trovato, poi, la controparte in una analoga storia di questi ragazzi dell’Oltrepò Pavese. Io sono figlio di questa mentalità. Io sono uno da bar, dove mi piace andare a parlare e discutere con gli amici, come mi piace frequentare le feste popolari, le balere anche se non ho mai ballato. Io vengo da questo ambiente che ha contribuito a formarmi, perché, come insegna la biologia, un essere umano è frutto sia del DNA sia dell’ambiente in cui è cresciuto. Naturalmente, sono andato oltre la mentalità popolare e ho fatto i miei studi, mi sono laureato in biologia, insegnato matematica e scienze, mi interesso di filosofia, storia. Tuttavia, anche quando mi ritrovo ad affrontare queste cose a quel livello, non nel senso di altezza superiore ma nel senso che sono un'altra strada, mi ritrovo sempre a fare i conti con la mia anima popolare. Da qui nasce quella che ho definito via ludica all’impegno, cui facevi riferimento tu, e che ben esprime il senso di tutto quello che ho fatto e sto facendo.

 

È previsto un tour per questo spettacolo?

Si, abbiamo già collocato alcune date durante l’estate, per altre siamo in trattativa. È tutto ancora in via di definizione.

 

Ci sarà anche il Sud? Una domanda interessata perché noi siamo nel Salento

Si, voglio sperarlo. Io mi propongo ovunque, poi bisogna trovare la disponibilità degli operatori locali. Nel Salento, poi, c’è la Notte della Taranta, un posto dove sarebbe bello portare queste canzoni perché questo genere musicale ha trovato, da tempo, un adeguato riconoscimento e valorizzazione.

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