Lo-fi hip hop, un ininterrotto flusso di musica ossessiva e ipnotica generata da artisti senza nome e svincolati dall’industria discografica, che appare come una cartina di tornasole per indagare lo spirito del tempo.
Se si dovesse pensare ad una musica che intercetta alcuni tratti del mondo e del momento storico che stiamo vivendo di cui riflette in cambio una versione quintessenziale, una sorta di minimo comun denominatore o, estremizzando, una sorta di metafora, questa sarebbe senza dubbio il lo-fi hip hop.
Volendo dare una definizione si potrebbe definirlo come un genere che si afferma principalmente tra la Generazione Z e all’inizio esclusivamente in rete sulle piattaforme streaming a partire dagli anni dieci con artisti da milioni di visualizzazioni praticamente sconosciuti. Dibattuti le origini e le ascendenze musicali, tra i riferimenti più citati il rap sperimentale di J-Dilla, da molti considerato un autentico precursore, il soundcloud rap, ma anche lo smooth jazz, il muzak, il chopped and screwed.
Come detto, si tratta di una musica che trova un immediato canale di diffusione nella rete e nelle playlist di di YouTube. Ad oggi, si tratta di un fenomeno globale con numeri che cominciano ad attirare l’attenzione anche della case discografiche, la playlist “lo fi hip radio – beats to study/relax to” viene ascoltata stabilmente da migliaia di ascoltatori, così come Chilled Cow conta milioni di iscritti, solo per fare alcuni esempi.
Quotidianamente h24 queste playlist diffondono un flusso sonoro di tracce strumentali dai ritmi lenti, trasognati, malinconici, che hanno come carattere fondante l’omogeneità. La struttura è quella classica del base loop dell’hip hop su cui si innestano elementi sonori tratti dal jazz. Quello che maggiormente colpisce all’ascolto è la totale mancanza di sviluppo, di una direzione che comunichi il senso di uno svolgimento, tutto si ripete identico a sé stesso. Questa caratteristica ne determina, inevitabilmente, anche la modalità di fruizione che è improntata alla più totale passività.
Il termine lo-fi, all’opposto di hi-fi, sta per low-fidelity, bassa fedeltà, con riferimento alla pulizia e alla qualità del suono. Un suono sporco che, secondo Adam Harper, individua una precisa estetica: lo-fi è una musica di controcultura che vuole rappresentare autenticità, immediatezza, calore del passato contrapposto ai suoni puliti, digitali e inumani del mercato e delle macchine.
Se si guarda all’estetica e al fenomeno della fruizione della musica lo-fi si possono ricavare interessanti osservazioni su due versanti che raccontano due aspetti distinti e convergenti della realtà in cui ci troviamo immersi.
Una prima osservazione discende proprio dalla modalità di fruizione, come evidenziato da Elia Alovisi su Vice, un confronto interessante è quello con un altro fenomeno musicale in voga negli anni Ottanta come la chill-out, nata a Londra negli ambienti dei rave. Al di là dei tratti estetici comuni, la differenza sostanziale è la modalità di utilizzo delle dei due generi. La chill-out è una musica di decompressione e rilassamento dallo stress lavorativo fruita nei luoghi deputati allo svago, distinti da quelli produttivi, secondo il motto degli yuppies “work hard party hard”; la musica lo-fi è una sorta di tappeto sonoro che accompagna l’attività lavorativa per una generazione che non ha conosciuto gli anni ruggenti del capitalismo e l’euforia del divertimento senza freni
Oggi lo spazio e il tempo del lavoro si è distribuito in tutti i luoghi e i momenti della vita e il senso del momento produttivo concluso, sgretolato. All’interno di questa realtà, l’unico desiderio diventa quello “di sostare in una fluttuante stasi di torpore indotto musicalmente. Le lo-fi hip hop radio assicurano questo effetto trasmettendo brani assolutamente innocui per le nostre bolle di filtraggio. All’interno dei pezzi, della durata media di 100 secondi, esistono delle piccole variazioni come l’erogazione di basse addizionali, effetti e modulazioni. Tuttavia il pezzo non va letteralmente da nessuna parte. Le melodie sono ossessive e attingono al catalogo infinito del cool jazz.
La pratica compositiva è quella del campionamento. Il suono di pianoforti elettrici tipo Rhodes o Wurlitzer è quasi onnipresente. Il tutto è tenuto assieme da una drum machine morbida assestata attorno ai 90 BPM. Satie parlava all’inizio del Novecento della sua opera come di furniture music: letteralmente “musica d'arredamento” o “musica tappezzeria", termine poi ripreso e operativamente svolto da Brian Eno. Non è un caso che le Gymnopédies di Satie ritornino in una grande quantità̀ di brani delle lo-fi hip hop radio”.
Le nuove forme lavorative, che hanno comportato una rilocalizzazione dei luoghi di lavoro che ora coincidono sempre più con la propria casa e la smaterializzazione dei rapporti di lavoro, ha indebolito la relazione tra datore di lavoro e dipendente e anche quella tra colleghi. Viene meno il senso di appartenenza comunitaria, per non parlare della coscienza di classe e dei confini del tempo di produzione. Il risultato è un rifiuto della competizione con l’ansia da prestazione che domina su tutto, dando luogo ad una comunità priva di messaggio felice di non provarci.
Tutti questi tratti possono essere letti proprio come una premessa del successo della musica lo-fi che si sottrae alle logiche del mercato e mette in discussione il concetto stesso di artista come singolo creatore, per affidarsi ad una sorta di sforzo collettivo. Non a caso, i nomi dei tanti artisti presenti nelle playlist Youtube sono degli “pseudonimi generici, indici senza referente di una moltitudine annoiata che rifiuta di esporsi, di farsi identificare e di finire in una classifica. Non esiste per gli ascoltatori di queste radio un artista preferito, ma è proprio questo il punto: la rassicurante interscambiabilità di questi musicisti e brani. La grandezza, se c’è, di questa protesta silenziosa è quella di aver trasformato l’indifferenza e la stessità, che propone il moderno assetto socio economico, da un motivo di frustrazione a un dispositivo consolatorio”.
Quello che sembrano esplorare queste sonorità è un nuovo paesaggio emotivo emergente, soprattutto tra la cosiddetta Generazione Z. Come scrive Gianluca Catalfamo su Il Libraio: “effetto di queste playlist è quello di partecipare a un umore. Qualcosa di caldo, dolce e accogliente che sa di calma, di un isolamento dal mondo, di casa o di un rifugio e cosparge i timpani di liquido amniotico; qualsiasi cosa stia nel punto logico opposto a un modo accelerato. Tutto, veramente tutto, nel lo-fi hip hop cospira precisamente a produrre questa sensazione, come una formula alchemica”.
Uno degli esponenti italiani come Fudasca a Repubblica ha dichiarato: “noi ci rivolgiamo a chi ha problemi di ansia o depressione, e tra quelli nella mia generazione sono in tanti”.
Il fine emerge chiaro nel rapporto che questa musica intrattiene con il passato. Questo, non rappresenta più un fine estetico in sé stesso, come per il vintage ad esempio, ma è assunto con una pura funzione strumentale. “Non c’è un reale feticismo degli anni Ottanta, dei Novanta o di qualsiasi epoca più semplice: l’aspirazione più pura del lo-fi hip non è di “suonare come”, ma proprio quella di essere una benzodiazepina. Di produrre quel senso di dissociazione da sé stessi, di distanza dai propri conflitti irrisolti, di produrre il ronzio chimicamente indotto che sostituisce i pensieri ossessivi e, muto, ti racconta che persona potresti essere senza i pesi psicologici che trascini”.
Una ulteriore evoluzione, in forma pura e distillata, di quella xanax music che ha caratterizzato gli anni zero travalicando i generi, dalla trap a Lana Del Rey.
La fortuna di questa musica ipnotica e ripetitiva si potrebbe proprio rintracciare nelle inquietudini e paure generalizzate dei millenial. Un scorrere fluido e senza peso di un suono che rappresenta la reazione musicale ad un’insofferenza verso l’imprevisto e l’incertezza da parte di una generazione che ha conosciuto solo precarietà, crisi, fragilità. Un suono ansiolitico che “parla dell’ansia di un presente impossibile, lamenta la proverbiale assenza di alternative, la voglia di un rifugio dal quale navigare ed esprime una pulsione nichilista, una pulsione di morte, ma ecco, senza morte, la ricerca di vuoto lambito da una calma amniotica e da una tristezza pulviscolare. Più che un sogno o un desiderio, è un certo modo di rifiutare capace di essere cinico e allo stesso tempo dolce, e però di rifiutare un intero mondo, in blocco”.