Parlando del Festival di Sanremo è il caso di dire che non son tutte rose e fiori. L’elenco delle esibizioni che suscitano una gamma di sentimenti assortiti, che vanno dal comico involontario al raccapriccio, è piuttosto nutrito. In questo articolo ripercorriamo alcuni esempi di esibizioni che hanno adornato la galleria di orrori musicali del Festival.
In un precedente articolo abbiamo passato in rassegna i grandi incompresi del Festival di Sanremo, quei brani che, maltrattati dalla classifica, si sono rivelati classici imperituri della canzone italiana. Il palco dell’Ariston ha, purtroppo, ospitato anche un numero non esiguo di brani semplicemente agghiaccianti per interpretazione, musica o testo o per tutti e tre insieme. Facendo la tara dei brani con una vena esplicitamente provocatoria e ironica, gli esempi di brani che suscitano orrore e sgomento non mancano e in alcuni casi si è potuto assistere ad esibizioni con effetti stranianti da fare impallidire il miglior Ionesco. L’elenco che segue vuole essere solo a scopo illustrativo e non pretende di esaurire il tema.
Thomas Beecher Hooker in arte Tom Hooker è un cantante e compositore statunitense. Divenne famoso in Italia negli anni '80 col genere italo-disco, attualmente ha cambiato il proprio nome in Thomas Barbey, probabilmente per far perdere il ricordo della sua esibizione festivaliere dell’81 con questo brano, che già nel titolo, non lascia molto spazio all’immaginazione e che consiste in un reiterato invito a farsi palpare dall’amata. A completare il quadro la mise improbabile con tanto di tutina imbarazzante,l pattini a rotelle e contorno di ballerine.
A titolo esemplificativo, riportiamo i seguenti immortali versi: “Tre fragole è la dose che prendo se piango. Quando mi sento sola sperando che basti. Tre fragole è un istante - vissuto evanescente”. A questo si aggiunga la performance canora della cantante, allora appena reduce dalla partecipazione alla prima edizione di "Amici di Maria de Filippi" (quando ancora si chiamava "Saranno Famosi"), che si esibisce, non si sa per quale motivo, imitando gli andamenti vocali tipici della musica indiana, riuscendo incomprensibile nella pronuncia e più vicina a barbarici borborigmi.
Già il look da improbabile cowgirl avrebbe dovuto mettere sull’avviso ma la canzone, scartata da Loredana Bertè vent’anni prima e proposta dalla meteora Maria Grazia Impero tra le Novità del 1993, riesce ad essere davvero qualcosa di epico con la sua sferzata rock (o presunta tale) a suon di “hula hula hoop”. Quell'anno, per la cronaca, il primo premio della categoria esordienti andò a "La solitudine" di Laura Pausini.
Canzone a sfondo religioso che racconta la storia di Gesù dalla prospettiva dell’asinello che ne accompagna l’ingresso a Gerusalemme. Un testo inconsistente da ritrovo parrocchiale con la prosopopea dell’impegno e il camuffamento da ballata folk.
Più che una canzone "Stella", firmata dall’ineffabile coppia Cecchetto Jovanotti, è una sorta di Triangolo delle Bermuda che ha fatto inabissare e scomparire nel nulla ogni velleità canora e musicale delle due sorelle Boccoli. Una delle più epiche cantonate della carriera da produttore di Cecchetto capace di insidiare il primato assoluto del disco di Mauro Repetto.
Il pezzo in questione, capace di raggiungere vette di birichina sfrontatezza del tipo “ascoltavo senza contestare / le palle che sapevi raccontare / io ti consideravo un superman / ma non sei neanche un man, scemo / non sei nemmeno la metà di un man”, vanta una firma d'autore: quella di Franco Califano. "Che brutto affare", portato da Maria Concetta Chiarello aka Jo Chiarello al Festival di Sanremo 1981, non riuscì nemmeno ad arrivare alla serata finale, chissà per quale arcano motivo.
Nata come risultato di una serata di accessi alcolici alla bocciofila, la famigerata Squadra italiana era composta da: Nilla Pizzi, Jimmy Fontana, Gianni Nazzaro, Wilma Goich, Wess, Giuseppe Cionfoli, Tony Santagata, Lando Fiorini, Mario Merola, Rosanna Fratello e la “piccola” Manuela Villa a fare da mascotte. Undici componenti le cui età sommate superano i 700 anni. “Il brano è moderno come una statuetta in porcellana di Capodimonte appoggiata su un centrino sopra una credenza in barocco piemontese” (cit).
Il testo, un chiaro esempio di poesia dadaista che accosta parole con la complicità del caso, lascia intravede lacerti di senso che sembrano adombrare l’uso di sostanze stupefacenti da parte dell’autore e un certo trasporto per il fondoschiena di detta Fragolina. Consegnati alle patrie lettere gli immortali versi che audacemente sdoganarono il termine culetto a Sanremo: “Non andar mai via / fragolina mia / non lo vedi che lo adoro / il tuo culetto d'oro / non lo vedi che ti adoro / oh no / fragolina mia / un pezzo a me un pezzo a te”.
Approdato tra le nuove proposte alla precoce età di 36 anni con l’allure di un ultraquarantenne, cerca di dissimulare la carta d’identità con un look sbarazzino con tanto di bandana, purtroppo ormai fuorimoda. Portato sul palco dal suo cognome, per non deludere le attese, si produce in una imitazione dell’illustre genitore, riuscendo maldestramente solo a ricalcare gli accenti nasali della voce e le movenze in Bingo Bongo. A rendere l’esibizione ancora più memorabile, la comparsa sul palco della ragazza di Giacomo in pieno stile teenager anni ‘80 con zainetto e cellulare in mano che, in un playback dissimulato con una bravura attoriale paragonabile a quella di Manuela Arcuri, mima una telefonata rivolta a lui, disvelando anche il motivo dei dissapori che intercorrono tra i due: Giacomo ha un cellulare con una ricezione piuttosto scarsa e risulta sempre irreperibile.
Un testo imperniato su temi di scottante attualità come dio, patria e famiglia, cantato dal discendente di una casa reale decaduta. Basterebbe il nome di Emanuele Filiberto a garantire l’improbabilità di tutta l’operazione che riesce a raggiungere vertici di stucchevolezza inenarrabili.
Le polemiche che hanno preceduto la partecipazione di Junior Cally al Festival di quest’anno riferite ai suoi testi sessisti di anni prima, fanno sorridere se confrontate al silenzio e all’ammissione fino alla prima serata di una canzone come quella di Leo Leandro, che recita testualmente: “Hai sedici anni, ma guarda tu / ormai io li ho passati da un po’ / ma tu mi piaci troppo però / Mangi troppe caramelle, gnam gnam gnam / scappi e lasci i brividi a pelle”. Poi il ritornello: “Caramella all’albicocca, guarda che bocca / Caramella alla mora, guarda che bona / Caramella stammi stretta, ma quanta frutta / Ti chiedo un bacio e ti fai brutta / Caramella alla pera, che merendera / Caramella anche alla mela, che seno a pera / Vieni a casa mia stasera / Ma vieni sola, mi ridi in faccia scappi via”.