Il dramma della morte e passione del Cristo è stato nei secoli una inesauribile fonte di ispirazione artistica. In ambito musicale si annovera una produzione davvero copiosa e che abbraccia i secoli. Uno dei vertici indiscussi di questo repertorio è senza dubbio lo Stabat Mater di Pergolesi, una riflessione sul dolore e la morte tra le più intense e profonde della storia della musica.
Le vicende della vita di Cristo sono state narrate, in modo ampio e dettagliato, dai quattro evangelisti, in particolare gli ultimi tre giorni della sua vita. Proprio il dramma della morte di Gesù e lo strazio della madre ai piedi della croce hanno costituito un temine di riferimento costante per la produzione artistica occidentale. Anche la musica ha variamente rappresentato questi eventi, uno degli esempi più alti di questo repertorio, che vista la ricorrenza di questo venerdì che porta alla Pasqua può essere occasione per riscoprire o poter apprezzare per la prima volta, è rappresentato dallo Stabat Mater di Gian Battista Pergolesi, una delle riflessioni musicali più coinvolgenti e profonde sul mistero della morte e del dolore. Scritta nel 1736 su commissione dell’Arciconfraternita dei Cavalieri della Vergine del Dolore di Napoli, la straordinaria composizione coincide, come nel caso del Requiem di Mozart, con l’ultimo periodo di vita del musicista di Jesi, morto a soli 26 anni, acquistando così tutto lo spessore e la forza di un testamento, l’estremo lascito di una stella che ha bruciato con troppo fulgore per un tempo assai breve.
Commovente, a questo proposito, la cronaca degli ultimi giorni di vita del compositore: “Essendosi portato a visitarlo Francesco di Feo, rinomato maestro di musica che lo amava teneramente, e veduto che egli giacendo a letto si occupava a terminare la composizione dello Stabat Mater, fortemente lo rimproverò, dicendogli che le sue condizioni di salute meritavano ben altri riguardi. Ma il povero giovane rispose che non voleva morire prima di finir l'opera che gli era già stata pagata ducati dieci: - E forse, aggiunse, non varrà dieci baiocchi. Tornò dopo qualche settimana il Feo e lo ritrovò peggiorato a segno che a stento dalle moribonde labbra di lui potrà intendere che lo Stabat era stato terminato e inviato al suo destino”
Finis, Deo gratias, le ultime significative parole scritte di suo pugno.
A partire dal celebre testo attribuito a Jacopone da Todi, Pegolesi mette in scena un vero e proprio teatro dello spirito in cui trovano plastica e commossa rappresentazione il dolore della madre di Cristo di fronte alle sofferenze e all’inaudito della morte del figlio. Il testo, redatto in latino medievale, tratteggia in un linguaggio scarno, scandito da rime incalzanti, una scena del Golgota dalle tinte commosse e arcane, cui Pergolesi affianca una musica di efficacissima essenzialità espressiva dalla grande resa melodrammatica e sentimentale.
Una veste orchestrale spoglia composta dalle voci strumentali dei violini e del basso segue con fervida e palpitante partecipazione le due voci soliste (soprano e contralto), che descrivono con resa immediata fotogrammi che esprimono tutto il dolore e lo sgomento del cuore umano dinanzi al mistero della sofferenza e della morte. Una riflessione che trascende il tono devozionale e si carica di significati più universali arrivando a toccare il cuore dell’uomo in quanto essere creaturale finito e per questo mortale. Un discorso musicale capace di avvinghiarci fin dalle prime note caratterizzate da un primo dissonante lamento in cui trova voce il lamento soffocato della Madre ai pedi della croce.
Nel suo svolgersi la composizione si carica di commozione religiosa sapientemente espressa attraverso un simbolismo vocale che prefigura il melodramma. La retorica belcantistica e la vocalità ricca di plastica teatralità, delineano con sorprendente immediatezza una virtuale Sacra Rappresentazione la cui scenografia è allestita con abili intrecci vocali, rapidi inseguimenti imitativi e una complessiva celebrazione degli elementi della Via Crucis, capace di restituire con immediatezza fisica la lancia che trapassa il costato o il ripetersi onomatopeico del battito dei denti e del singhiozzo. Un uso di arti virtuosistiche non fine a stesso ma appassionato e ardito capace di una straordinaria presa espressiva.
Lo strazio e lo struggimento materni di indicibile potenza trovano, poi, uno scioglimento e una luminosa apertura nel commovente finale, in cui il canto delle due voci si unisce per la prima volta, depurandosi delle trafitture virtuosistiche per guidarci con la sua purezza verso il culmine dell’Amen conclusivo, che rappresenta una delle più belle affermazioni canore della speranza e del mistero che salva attraverso il dolore.