La musica significò per molti internati nei campi di concentramento un estremo, salvifico atto di resistenza contro la morte. La musica composta nei campi di concentramento è una pagina ancora poco conosciuta della Seconda Guerra Mondiale e della Shoah. A diffonderne la testimonianza è l’archivio dell’Istituto Letteratura Musicale Concentrazionaria, voluto e realizizzato, con infaticabile lavoro, da Francesco Lotoro. Da questo archivio, è nato lo spettacolo Libero il mio canto, andato in scena nel 2019, dedicato alla produzione musicale realizzata da donne internate nei campi e da cui abbiamo tratto cinque storie esemplari.
Nei campi furono deportati numerosi grandissimi musicisti e compositori, che continuarono a suonare e comporre, a volte di nascosto, a volte con il beneplacito delle SS. I nazisti utilizzarono le orchestre per il proprio intrattenimento, ma anche per mantenere l’ordine e la calma durante gli appelli, gli arrivi dei treni, persino nel percorso verso le camere a gas.
Le storie di musicisti noti si intrecciano a quelle di altri meno noti o sconosciuti, storie di persone che, pur nell’orrore del campo, hanno continuato a coltivare la passione per la musica come atto di resistenza alla morte e affermazione della propria irriducibile umanità.
Testimonianze di inestimabile e altissimo valore umano e documentale, che sarebbero in buona parte andate perdute, se non fosse per il lavoro di Francesco Lotoro, musicologo e pianista, che ha dedicato più di trent’anni di lavoro per rintracciare, recuperare, trascrivere, eseguire e registrare la musica composta dalle vittime dei campi di concentramento e di sterminio, durante la seconda guerra mondiale.
Si tratta di un’impresa enorme, ancora in corso, che ha raccolto più di diecimila spartiti, molti su carta straccia o perfino su carta igienica, scritti in luoghi di tormento e di morte. Lotoro ha viaggiato in Europa, Israele e Brasile per raccogliere le testimonianze dei pochi sopravvissuti e dei loro figli e per trovare, negli archivi e nelle case, spartiti rimasti ignorati per più di settant’anni e dando vita alla Fondazione Istituto di letteratura musicale concentrazionaria.
Un lavoro che è stato oggetto di un documentario dal titolo Maestro, diretto dal regista Alexandre Valenti e che ha portato all’allestimento dello spettacolo Libero il mio canto, che ha raccontato e portato in scena la produzione musicale delle donne internate nei lager tedeschi, nei gulag russi, nei campi giapponesi e africani, durante la seconda guerra mondiale: donne ebree, tedesche, polacche, ungheresi, italiane, olandesi, ma anche britanniche e australiane, sovietiche e rom.
Sono testimonianze struggenti della creatività femminile e della capacità di non arrendersi al male, cercando disperata consolazione nella bellezza e nell’arte. E sono anche pezzi di grande valore musicale, che modificano la comune percezione della musica scritta dall’altra metà del cielo e pongono l’accento sulla discriminazione di cui le compositrici sono state fatte e continuano a essere oggetto.
La produzione musicale femminile è, come peraltro la maggior parte della creatività artistica, una grande lacuna nella storia dell’umanità. Alle donne non era concesso esprimersi artisticamente in proprio, pochissime sono riuscite a sfidare le convenzioni e a imporsi come pittrici, scrittrici, compositrici, scultrici. Paradossalmente, nei campi di concentramento, dove uomini e donne erano separati, la creatività femminile si poté esprimere, trovando nella musica un mezzo espressivo d’elezione.
Una produzione che spazia dalla canzone drammatica, che racconta gli orrori del campo, a quella che vagheggia sogni d’amore o di estatica contemplazione della natura e della sua bellezza, per arrivare alle inaspettate parodie di celebri canzonette dell’epoca, come Io sono tanto felice, cantata in polacco con inequivocabile ironia, o Parlami d’amore Mariù, trasformata nel campo di Fossoli in una buffa preghiera per il postino.
Ma anche cori struggenti, come quello dei bambini nati nei gulag russi o il Salmo scritto per la liberazione di Auschwitz, pezzi classici, come il Bolero di Ravel, cantato a cappella, perché mancavano gli strumenti in un campo di internamento giapponese in Indonesia, o Dvorak cantato a Ravensbruck con parole composte dalle prigioniere. Ogni composizione diventa anche estrema e vivida testimonianza delle storie di vita e sofferenza che, attraverso quelle note, è riuscita a superare il filo spinato dei campi, per giungere fino a noi. Tra le storia di queste donne e della loro musica, ne abbiamo scelto cinque, cinque storie di donne e musica, che raccontano di una grande forza spirituale, capace di vincere l’orrore con la potenza dell’arte e della bellezza.
Nata l’11 gennaio 1903 a Witkowitz (oggi Vítkovice v Krkonoších, Repubblica Ceca), virtuosa in numerosi strumenti musicali, nonché autrice di canzoni e opere teatrali per l’infanzia, nel 1930 Ilse (il suo cognome da nubile era Herlinger) sposò Vilém Weber e si trasferì con lui a Praga. Nel febbraio 1942 Ilse, suo marito e il figlio minore Tomáš (detto Tommy) furono deportati a Theresienstadt; qui, Ilse lavorò come infermiera addetta alla sorveglianza infantile, scrisse circa 60 testi poetici, alcuni dei quali messi in musica con accompagnamento musicale. Ai primi di ottobre 1944, scelse volontariamente di seguire suo marito ad Auschwitz-Birkenau con il figlio Tommy.
Straziante l’epilogo della sua storia, scrive Gabriele Lippi: “Arrivata al campo chiese se era vero ciò che si diceva, che avrebbero potuto fare la doccia appena arrivati. L'uomo a cui rivolse la domanda non riuscì a mentirle, le disse che quelle docce erano in realtà camere a gas, le consigliò di sedersi per terra coi bambini e cantare con loro, in modo da inalare il gas più in fretta e morire prima che si diffondesse il panico. A tramandare le opere di Ilse è stato il marito, che le aveva sotterrate accanto a un capanno degli attrezzi a Theresienstadt, nella speranza che qualcuno un giorno le trovasse. Fu lui, una volta sopravvissuto alla Shoah, a renderle pubbliche”.
Didatta e compositrice morava, Ludmila Kadlecova Peškařová (1890-1987), fu arrestata nel maggio 1943 dalla Gestapo e trasferita presso la prigione di Brno-Cejl, nell’ottobre 1943, fu poi deportata a Ravensbrück, il più grande dei campi di concentramento femminili nazisti, dove rimase fino alla liberazione, avvenuta nel 1945. A Ravensbrück, Ludmila Peškařová scrisse clandestinamente oltre un centinaio tra lieder, brani corali e poemi per la maggior parte di ispirazione patriottica, religiosa, ma anche dedicati alla sua terra morava, senza disdegnare canzoncine per le festività natalizie del 1944 e anche il riadattamento di pezzi musicali famosi, con testi creati ad hoc. Liberata nell’aprile 1945, nell’estate del medesimo anno Ludmila stese in partitura il materiale musicale scritto durante la prigionia, talora aggiungendo un accompagnamento pianistico.
Camilla Mohaupt (secondo altre fonti Camilla Spielbichler, ma il suo nome sarebbe in realtà Margot Bachner) fu trasferita ad Auschwitz II Birkenau e, successivamente, a Bergen-Belsen; qui, scrisse il lungo canto strofico Auschwitzlied sulla popolare melodia Wo die Nordseewellen trecken an der Strand: un racconto duro e implacabile dell’inferno concentrazionario, tra paludi e postazioni, catene e filo spinato. “Il nido maledetto che i prigionieri odiano più della peste maligna...Lì, dove la malaria, il tifo ed altri mali, lì, dove il male dell’anima congela il cuore, lì, dove migliaia di prigionieri sono stati strappati ai loro cari e sempre lì si vedono file e file di baracche costruite per mano dei prigionieri, che sotto la pioggia e la tempesta devono trascinare sabbia e mattoni...Blocco dopo blocco, essi erigono per le decine di migliaia di uomini che ancora arriveranno”.
Bela Bogaty nacque a Będzin (Slesia, Polonia) il 4 maggio 1927, fu deportata nel 1941 presso Parschnitz, un subcampo di Gross-Rosen prevalentemente destinato all’internamento e lavoro coatto femminile: le sorveglianti erano guardie femminili inquadrate nelle SS. Il campo fu liberato il 9 maggio 1945 dalle truppe sovietiche. Insieme alle compagne di prigionia Lena e Radassa (delle quali non conosciamo i cognomi), Bela creò il canto Pieśń rozpaczy, utilizzando l’unico giorno al mese di riposo dai lavori forzati e stendendo clandestinamente il testo su un foglio di carta. Colpita da tubercolosi, riuscì comunque a sopravvivere. Dopo la Guerra, emigrò in Italia (dove si unì in matrimonio con Josef Lustman, sopravvissuto a Mauthasen) e, in seguito, in Brasile.
Nata il 6 settembre 1925 a Brzeżany (oggi Berezhany, Ucraina), fu trasferita nel 1941 con i genitori presso il ghetto di Białystok, dove il 16 agosto 1943 partecipò all’insurrezione; imprigionata con i suoi familiari a Lublin-Majdanek, nel novembre 1943 vide con i suoi occhi il padre violinista, Adolf, ucciso, dopo essere stato costretto a suonare con l’orchestra del campo. Successivamente, fu trasferita presso il campo di lavoro coatto di Bliżyn e nel maggio 1944 ad Auschwitz II Birkenau, dove partecipò all’insurrezione del 7 ottobre 1944; poi, nel novembre dello stesso anno, presso il campo di lavoro coatto femminile della Lippstädter Eisen und Metallwerke, sub-campo di Buchenwald. Sua madre Ernestyna, insegnante, fu trasferita nel gennaio 1945 a Bergen-Belsen, dove morì di inedia, poco prima della liberazione del campo.
Nel marzo 1945, già malata di tifo, Rena fu sottoposta a una marcia della morte verso Bergen-Belsen. II 15 aprile 1945 fu liberata dalle truppe statunitensi presso Kaunitz, sub-campo di Buchenwald, creato nel marzo 1945, per ospitare le lavoratrici coatte sopravvissute a Lippstadt.
Nonostante l’orrore vissuto, Rena, dopo la liberazione, intraprese studi di medicina a Heidelberg (Germania), dove conseguì un dottorato e nel maggio 1946 si imbarcò sulla Marine Perch ed emigrò negli Stati Uniti, beneficiando di un visto collettivo concesso dal governo statunitense. Nel 1948 sposò Marvin Shapiro e negli anni successivi divenne docente di biologia presso la Bronx High School of Science di New York, pubblicando importanti ricerche e anche il libro di memorie Revisiting the Shadows (Rivisitare le ombre). Morta nel 2007, rappresenta un luminoso esempio di resilienza, coraggio e forza d’animo.
Fonte articolo: https://www.memoriainscena.it/concerti/libero-e-il-mio-canto/#rass-stampa