Negli anni è diventata un inno, una preghiera, un canto di consolazione e amore disperato. Conta più di 200 versioni di differenti artisti, da Dylan agli U2, che si sono cimentati proponendone una propria versione. Nonostante questo successo nel corso del tempo, Hallelujah di Leonard Cohen ha avuto una gestazione assai tormentata all'interno di un tortuoso flusso creativo, che, come una sorta di fiume carsico, ha attraversato per almeno un quindicennio la storia della musica, segnando clamorosi insuccessi e disfatte discografiche.
Per quattro anni viene variamente rimaneggiata e modificata dal suo autore fino a includere un numero spropositato di strofe. Cohen la registra nel 1984 nell’album “Various Positions”, che si rivela, però, un tale disastro da venire rifiutato dalla sua casa discografica, Cbs Records. Cohen è come ossessionato dalla canzone e continua a lavorarci e a portarla nei suoi concerti in versioni sempre diverse e accresciute.
Da qui inizia la storia degli incontri di questo piccolo gioiello con musicisti eccezionali che intuiscono la grandezza del pezzo e, quasi maieuticamente, ne aiutano il difficile parto. Uno di questi incontri imprescindibili è quello con il cofondatore dei Velvet Underground John Cale, che, ascoltatala in un concerto, ne rimane folgorato. Cale chiede a Cohen di inviargli il testo per realizzarne una cover. Gli arrivano quindici pagine di appunti e rovelli irrisolti dal quale il compositore gallese riprende le parti, a suo dire, più sfacciate e piene di riferimenti biblici eliminati nel tempo da Cohen. La canzone raggiunge una forma molto vicina a quella che conosciamo e viene inclusa in un album di cover che si intitola “I’m your fan” uscito nel 1991, che segna l’ennesimo insuccesso del brano.
Questa versione ispira, a sua volta, il secondo decisivo incontro della canzone con una delle voci più emozionanti e vibranti della sua generazione: quella di Jeff Buckley. Buckley include Hallelujah in Grace, il suo primo e unico album in studio, pubblicato dalla Columbia nel 1994. Il cantautore statunitense realizza una versione personalissima e abbagliante della canzone consegnandola alla storia dei capolavori immortali della musica pop. L'interpretazione di Buckley inizia intonando una voce accennata, come un sospiro, per procedere attraverso sapienti dinamiche timbriche, che spaziano dalla voce bianca alla profonda intonazione da basso. La canzone si carica di pathos interpretativo, facendo coincidere l’ultimo hallelujah con un entusiastico e appassionato sì, che sembra includere nella sua benevolenza tutte le contraddizioni e le possibilità della vita. Il testo ricco di rimandi biblici si apre a più possibilità interpretative con riferimenti al tema erotico, alla violenza, la sottomissione, la ribellione, un magma, insomma, di sentimenti e passioni ricompresi in quell’hallelujah, che sembra avere lo stesso liberatorio valore di quei ripetuti «[…] yes I will Yes» con i quali Molly Bloom nel suo celebre monologo dice sì al suo corpo, all’amore e alla vita.
Con l’interpretazione di Buckley è come se un cerchio si chiudesse, benché, ancora una volta, all’uscita anche Grace verrà praticamente ignorato. Sarà, infine, la tragica, prematura scomparsa di Jeff a richiamare l’attenzione sulla sua miracolosa versione del capolavoro coheniano. Da quel momento, la ballata del cantautore canadese ha conosciuto un ininterrotto successo ricorrendo puntualmente in colonne sonore, cover e nuovi arrangiamenti. Tutti a cercare di far propria la magia di quella versione di Buckley, che come un mise in abyme ne contiene l’altra di Cale, che, a sua volta, ha fermato in una forma compiuta il magmatico caos creativo del suo geniale autore.