Da Chopin a Liszt, passando per Neuhaus e Hummel, riportiamo i parerei dei grandi del pianoforte per cercare di dare una risposta alla questione sempre attuale circa il tempo da dedicare allo studio dello strumento.
A più riprese su questo blog, si è insistito sulla necessità dello studio costante e dell’applicazione per poter mettere a frutto il tempo dedicato al pianoforte. La questione è cruciale e interessa chiunque studi il pianoforte o uno strumento in generale. Occorre precisare che la quantità di ore da dedicare allo studio sulla tastiera non può essere stabilito a priori in maniera indipendente dalle caratteristiche personali, dalle abilità e dal bagaglio tecnico di ciascuno.
Un’altra variabile in grado di incidere sulla quantità di ore che soggettivamente ognuno dedica all’esercizio è data dagli appuntamenti artistici che si hanno. È del tutto ovvio che anche chi ha acquisito una sua routine costante, in prossimità di un impegno concertistico, o di un concorso o di un esame, inevitabilmente si concentrerà di più e con più intensità sullo studio.
Fermo restando questa ineliminabile dimensione soggettiva e le scadenze personali, delle indicazioni di massima sul tempo giusto da dedicare allo studio pianistico ci possono venire dalle parole di alcuni grandi che si sono pronunciati in merito, a cominciare, inutile dirlo, da Fryderyk Franciszek Chopin. Secondo quanto racconta la sua allieva Camille Dubois: “Chopin temeva più di tutto l’imbruttimento dell’allievo. Quando apprese che studiavo sei ore al giorno si arrabbiò moltissimo e mi vietò di esercitarmi più di tre ore”.
Per il grande compositore e pianista polacco la priorità assoluta doveva essere accordata alla capacità di concentrazione, evitando di basare la tecnica esclusivamente su esercizi meccanici e ripetitivi.
Di parere contrario un altro grande del pianoforte come Franz Liszt, di cui si conosce l’acribia nello studio e la capacità di esercitarsi anche per diverse ore su un singolo passaggio senza passare ad altro, fino alla sua completa acquisizione. Considerando poi che le sessioni di studio di Liszt iniziavano dedicando dalle due alle tre ore solo all’agilità delle dita e alla tecnica, si capisce facilmente che il limite delle tre ore imposto da Chopin alla sua allieva era praticamente inconcepibile per il virtuoso magiaro.
Da qui l’esortazione rivolta alla sua allieva che racconta: “Mi ha nuovamente raccomandato le ottave semplici e sciolte in tutte le tonalità, di suonare le note con tutte le dita, tenendo appoggiate quelle che non lavorano, le scale veloci e forte, e in generale ogni sorta di ginnastica della mano per almeno due ore al giorno”. Anche nel consiglio rivolto all’allieva si ricava che le tre ore complessive di studio previste da Chopin, per Liszt erano appena sufficienti per allenare la tecnica senza poter approfondire la lettura di nuovi brani o la preparazione per un concerto.
Un’opinione affine a quella del compositore ungherese è quella palesata da Heinrich Neuhaus, che la illustrata in maniera davvero efficace. Il grande didatta russo ricorda che affrontando la questione con una sua studentessa poco incline allo studio sistematico, fece ricorso al seguente illuminante parallelo:
“Immagini di voler portare a ebollizione una pentola d’acqua. Occorre mettere la pentola sul fuoco, e non toglierla finché l’acqua non bolle. Lei invece porta la temperatura a quaranta o cinquanta gradi; poi spegne il fuoco, si occupa di qualcos’altro; poi si ricorda di nuovo della pentola, ma l’acqua si sarà già raffreddata; allora ricomincia tutto da capo, e così varie volte; alla fine, tutto questo l’avrà stancata, e lei avrà sprecato il tempo necessario a far sì che l’acqua bolla. In questo modo lei ha perso un’enorme quantità di tempo e ha abbassato in misura considerevole il suo tono lavorativo”.
Il segreto dell’apprendimento efficace per un pianista risiede nella continuità e nel conseguimento di una routine che permetta costanti acquisizioni giornaliere.
A difendere il parere di Chopin, il pianista e compositore austriaco Jan Nepomuk Hummel, secondo il quale tre ore di studio attento e costante sono più che sufficienti ed evitano un abbrutimento dello spirito del pianista, rendendo la sua esecuzione meccanica e priva di calore e anima.
Alla luce dei pareri fin qui espressi emergono due approcci, che pur condividendo la necessità di mantenere una certa costanza che si concretizza in una routine, appaino distinti e alternativi: uno più rigoroso e attento all’esercizio e alla tecnica e uno più basato sulla concentrazione e l’intensità.
Quale dei due scegliere? Come spesso accade, in medio virtus stat, nel senso che, se appare del tutto vitale scongiurare uno studio puramente ripetitivo e meccanico salvaguardando la concentrazione, è anche importante approfondire quei passaggi tecnici più ostici che inevitabilmente richiedono anche uno studio legato ad un esercizio prolungato.
A conclusione si può aggiungere la raccomandazione che i pianisti Leimer e Gieseking rivolgevano agli studenti di piano e che, in realtà, è una buona regola per qualsiasi tipo di studio, ovvero quella di intercalare le sessioni di apprendimento con pause di circa mezz’ora dedicate ad attività come passeggiate o lettura, che aiutino il rilassamento e il riposo.